mercoledì 20 febbraio 2013

IL GIAPPONE HA VOGLIA DI VERDE



Basta con le centrali nucleari. 
Nel fantastico Giappone è cresciuta una nuova tribù.
Il suo sogno: tornare alla natura.

I giapponesi vengono da Marte, e come tali sono interessantissimi. Anche dopo quindici vite vissute in Giappone difficilmente potrò comprendere a fondo le loro mille stranezze. Barbieri e parrucchieri con il menù per indicare il tariffario dei servizi, comunisti (pochini) dalle idee confuse che fanno il gesto a pugno chiuso con il braccio destro, il prefisso di rispetto o- (specie di ‘Signore’) al vile kane, lo sporco denaro. La pioniera che mi fece capire come noi e loro provenissimo da pianeti differenti la incontrai un giorno a Marina di Ravenna, quando un amico monomaniacale per le fidanzate giapponesi arrivò in spiaggia con l’ultima della serie. Servita la pizza al tavolo, anziché tagliarla a triangoli come gli altri esseri viventi, la fanciulla vi incise spirali da compasso, partendo dal centro. 









Da quel giorno ho continuato l’investigazione privata antropologica, in particolare a un tavolo del Juice Ja Café di Ubud, a Bali. Il caffè-ristorante, oltre a scodellare ottimi piatti a prezzi da backpacker e a fungere da punto d’incontro per gli habitué del paese, si affaccia sul negozio di saponi Kou. Negozietto di dimensioni lillipuziane e di proprietà giapponese, ma dal fatturato serissimo. Ogni giorno, guida aperta sotto il naso, vi arrivano in pellegrinaggio decine, se non centinaia, di clienti giapponesi. Hanno vacanze striminzite, ma se sono a Ubud non possono mancare il negozietto e farvi incetta di saponi. Perché lo dice la guida. Noi italiani, se non troviamo ciò che cerchiamo tutto e subito, possibilmente sotto casa, passiamo ad altro. I giapponesi seguono le guide - così come i navigatori satellitari - ciecamente, manco fossero bibbie detentrici della Verità, anche se per raggiungere la meta devono perdersi in un labirinto. Se hai un’attività commerciale e sei su una guida giapponese hai la pensione assicurata, se non ci sei sono guai. Kou non mi stanca mai, soprattutto perché non riesco a capire per quale motivo ogni giorno coppiette, ragazze da sole o con amiche, preso un aereo da una nazione a qualche ora di distanza debbano arrivare in processione fin qui, seguendo pedissequamente una guida con l’indice puntato sulla pagina, fino a trovare il tesoro profumato. Un negozietto grande come uno sgabuzzino ma, a calcolo veloce, dal fatturato pari a quello del resto di Ubud e dei circa diecimila umani che la abitano. Mi faccio in media tre docce al giorno, ma da qui a fare del sapone - lo stesso sapone che potrei trovare a casa - un motivo di viaggio ce ne vuole. Sarebbe come se noi, con tre giorni di ferie a disposizione, dedicassimo una preziosissima ora a cercare pummarola verace italiana nel Mali o ad Andorra.


Il mistero di Kou, però, è svelato, se si indaga un po’. I suoi saponi, come molto altro a Ubud, sono realizzati con ingredienti organici. Organico biologico, termini terribilmente di moda, di cui si sta abusando. Ma che per la nuova generazione green giapponese sono sacre. Non occorreva Fukushima per dare il la a questa grande tribù trasversale, che di porcherie chimiche non ne può più. Fukushima ha dato il colpo di grazia, è stato il giro di boa - speriamo di non ritorno - dall’artificiale al naturale. I maniaci delle etichette potrebbero chiamare questa generazione ‘impatto zero’: sul pianeta, sulla natura, sulle risorse non illimitate. I giapponesi hanno un’attrazione fatale per il dettaglio, e Madre Natura è ricca di dettagli.


Forse il Giappone è il Paese al mondo con il maggior numero di caffè. Una specie di grande Parigi dei bistrot che fu. Ce ne devono essere tanti quanti i bar in cui sbronzarsi orrendamente dopo l’ufficio. I primi, i caffè, per le donne, i bar per gli uomini, come in una specie di separazione consensuale del gusto e del ritmo della vita. Nei bar si tenta di dimenticare la propria esistenza, nei caffè la si riequilibra, ridandole il giusto ritmo, sorseggiando lentamente liquami non sempre eccellenti, a non meno di 300 yen (circa tre euro), in controcorrente al concetto di espresso. In Giappone il caffè - ambiente, bevanda - serve per rilassarsi, anziché a darci una piccola carica di energia con cui ripartire per le crociate quotidiane (lavoro, traffico, routine). Caffè spesso a imitazione dell’Europa, come la catena Caffè Veloce, che di rapido non ha proprio nulla, se non il servizio (sempre rapido, in ogni settore, in Giappone) e il nome.




È molto variegata, la tribù green nipponica, e non solo al femminile. In primis i neo-hippie, di solito tirati a lucido nelle loro uniformi indiane o guatemalteche, provenienti da Goa o da Panajacel. Colori coordinati, pulizia da bancario medio, look studiatissimo nel minimo dettaglio, nulla lasciato al caso - come tutto, in Giappone. I nostri neo-hippie, in genere, fanno dell’ascella non lavata una bandiera, quelli giapponesi (i più) sembrano appena usciti dalla tintoria. Alternativo non significa necessariamente zozzo, dalle parti del Sol Levante lo sanno benissimo. E poi, oltre ai nuovi hippie che hanno perso il treno degli anni Sessanta, c’è una folla eterogenea, meno appariscente, senza grossi bisogni di riflettori puntati addosso, ma che sta scegliendo sempre più una vita cosciente dei limiti e dei benefici della natura.






Coppie con bambini nati da poco che usano materiali organici - cotone primo fra tutti - per gli abiti, per i giocattoli, che cercano sistemi alternativi al pannolino (sia per il bebè, sia per gli assorbenti femminili) di materiale plastico usa-e-getta. Magari tornando alle vecchie ricette della nonna, quando la sporcizia veniva bollita e lavata via, permettendo di riutilizzare i tessuti senza impestare il mondo di immondizie (e, by the way, risparmiando). Oppure insegnando subito, ai loro bebè, ad acquisire abitudini ecologicamente corrette. Durante l’ultimo viaggio in Giappone ho conosciuto una madre che, oltre ad aver composto una specie di poema sul vasino da notte (le sue capacità quasi taumaturgiche, versus l’eticamente scorretto pannolino), stava insegnando alla figlioletta a usarlo sempre, tutto il giorno, boicottando il nemico industriale. Non sono entrato in dettagli (Cos’è, girate tutto il giorno con il vasino a portata di mano?), anche perché in Giappone la troppa curiosità non è vista benissimo. Fa molto italiano.





Nulla di meglio e di più simbolico della bella Okinawa, quale campione di Jap-green-freak-chic. A distanza di sicurezza da Fukushima (oltre 1700 km), da sempre con una delle diete più salutari al mondo - i suoi vecchietti sono tra i più longevi del pianeta -, oggi meta di moltissimi rifugiati in fuga dalle zone disastrate dallo tsunami, dalle bugie e dai silenzi del governo circa il reale livello di contaminazione nucleare. Alla ricerca di un ambiente più salubre e di un vivere con ritmi più umani di quelli della frenetica, poco sorridente Tokyo (http://ajw.asahi.com/article/0311disaster/life_and_death/AJ201111220017). Alghe e pesce nella cucina di tutti i giorni, sulle tavole di Okinawa, così come nei mercati. L’arcipelago, oltre che ricco di militari americani - dopo appena sessantotto anni dalla vittoria contro il Giappone non hanno ancora deciso di togliere le tende, per fortuna è anche ricco di isole fantastiche, di gente cordiale e di un’atmosfera accogliente.








Portabandiera della tribù green a Okinawa sono gli abitanti del piccolo villaggio di Takae, nel distretto di Higashi, nel nord dell’isola principale dell’arcipelago. Circondati dalla bellissima foresta di Yanbaru, hanno gli occhi di Tokyo puntati addosso. I locali non ne vogliono proprio sapere dell’ennesimo progetto di ampliamento degli eliporti per gli elicotteri dei militari statunitensi, a danno dell’ecosistema che vanta svariate specie a forte rischio di estinzione. La loro protesta, anche se non violenta, è comunque considerata un affronto da parte di Tokyo, che sempre più vuole in casa l’amico americano. Il terrore dei comunisti cinesi e nord-coreani sembra aver fatto dimenticare Hiroshima e Nagasaki ai più. Tanto da mettere sotto processo alcuni facinorosi pacifisti che, con innocui sit-in, si sono opposti alla distruzione di altra foresta e dei propri timpani con le eliche degli elicotteri.


Nella loro foresta, gli abitanti di Takae vorrebbero crescere i propri bambini più nel rispetto dello Yanbaru Kuina - un colorato uccello endemico della zona divenuto simbolo della rivolta pacifica - che in quello di qualche sergente maggiore dell’Alabama o del Missouri, venuto fin lì a rompere nidi, timpani e importanti organi dell’apparato riproduttivo. Il loro è un mondo semplice, di piccole abitazioni circondate da alberi e felci gigantesche. Gli adulti lavorano il legno, coltivano i campi, preparano cibi bio-organici sani e saporiti, magari affidando i bambini più piccoli al paziente baby-sitter del villaggio, una vera istituzione della comunità. Il loro sogno, in un Paese che fra centrali nucleari e tsunami sembra aver perso l’orientamento, è altamente condivisibile: tornare alla natura, prima che sa troppo tardi.



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