mercoledì 20 febbraio 2013

NAHA, IL GIAPPONE CON IL CUORE



Naha, dove la tranquillità è stile di vita

Un po’ Napoli, un po’ Honolulu, ma anche Tokyo e Taipei. Prendete i gatti randagi della prima, le camicie a fiori della seconda, il rispetto per le regole della terza e l’Asia in ogni cosa dell’ultima. E, visto che ci siete, aggiungete un po’ di coppole siciliane, di alcol da baretto pulcioso di Goa, di spiagge fantastiche tailandesi e di piatti vagamente messicani. Frullate il tutto e otterrete un chanpuru, un mix - nella lingua di Okinawa - che può darvi un’idea di Naha, la capitale dell’arcipelago più meridionale del Giappone, anche se non ci siete mai stati.






A Naha, ogni tanto, mi sembra di tornare bambino. Anche se sono in Giappone e di giapponese conosco venti parole, qui ritrovo ritmi e atmosfere degli anni Settanta, quando vivevo in strada a giocare a pallone, sfracellando timpani e altri organi importanti del vicinato condominiale a suon di pallonate contro le porte dei garage. Allora per me il Milan era Dio (Berlu aveva ancora i capelli veri e pensava solo ad accumulare i primi miliardi), il borsello horribilis che mi aveva regalato mio padre era un tesoro e gli odori di cibo serio pervadevano la mia Bologna. Come ogni bimbo non ero felicissimo (invidiavo i peli sotto le ascelle degli adulti); come ogni adulto oggi rimpiango, mitizzandolo, il mondo che fu.






Catapultato nella lontana, esotica Okinawa, rispetto a Bologna più o meno dalle parti di Marte, la sorpresa è stata grandiosa. Non un Giappone isterico e ipertecnologico - volendo, anche a Naha, c’è, basta cercarlo -, ma, in generale, un luogo del lieto vivere. Lavorando, dandosi da fare, ma con ritmi umani e, ogni tanto, pure con qualche sorriso. Con il cuore, si può dire, volendo usare un’immagine stucchevole da neomelodico.






Ishiyaki-mooooo… A volte mi sveglio, nel microappartamento al porto di Tomari, pensando di essere in qualche paese arabo. Il muezzin mi sta tirando giù dal letto, per chiamarmi alla preghiera. In realtà nessun musulmano in vista, da queste parti. La litania che giunge, soave e piacevole, è quella del venditore di patate dolci cotte a vapore. Qui le patate dolci furoreggiano, e sono una vera delizia. Il trabiccolo sbuffante, una specie di vecchia locomotiva a carbone montata su un furgoncino, procede lentamente attraverso le viuzze del porto, un po’ come faceva l’arrotino da noi qualche decennio fa. Richiamando i clienti, fermandosi ogni tanto.






Il trabiccolo delle patate fumanti, di solito, è seguito da quello della spazzatura. Lo si sente arrivare perché emette una Per Elisa elettronica, mentre procede lentamente lungo le vie. Lo smaltimento delle immondizie, in Giappone, è roba serissima. Per capirla bisogna studiare. Ogni casa è fornita di un poster in cui vengono illustrati, giorno per giorno, i rifiuti da smaltire e come (la carta annodata con cordicelle, le bottiglie di PVC senza il tappo, ecc.). La piantina della metropolitana di New York, a confronto, è di facilissima interpretazione. Rifiuti da incenerire (organico + plastiche assortite) nel sacco trasparente con la faccina a forma di fiamma rossa; rifiuti che non vanno bruciati nel sacco con la faccina blu. Ogni sacchetto e ogni merce il lunedì piuttosto che il mercoledì, se sgarri (sacchetto, contenuto, giorno, luogo) il giorno dopo il tuo sacchetto sarà ancora lì, con un adesivo che ti sgrida, sottolineando la tua impreparazione nello studio del poster. Follie del Giappone, per fortuna ne è pieno.






Nulla di meglio, la domenica pomeriggio, che trascinarsi lungo Kokusai-dōri, la ‘via Internazionale’ di Naha. Quel giorno la via è una piacevole passerella, non solo per i negozi che vendono magliette coloratissime e Shisa di terracotta, bottiglie di distillato awamori e terribili borsellini fatti con le rane (svuotate, una zip da ascella ad ascella), biscotti viola di patata dolce e Sanshin (il banjo dell’arcipelago, a tre corde) con la cassa di risonanza ricoperta da pelle di pitone, ciabattine decorate con i personaggi dei manga e bei bicchieri fatti a mano. La domenica, se si è fortunati, si può incappare in uno spettacolo di tamburi taiko. Svariati sono i gruppi che ne mantengono la tradizione, e assistere a una loro performance può far venire la pelle d’oca, tanto il suono è viscerale. Inoltre, con il bel tempo, aree riservate ai giochi dei bambini, tavolini per manicure, taxi ecologici a pedali e ristorantini per tutti i gusti. 






Souvenir e alimenti continuano dentro il labirinto commerciale della galleria Heiwa-dōri. L’interno è una babele di delizie esotiche per il palato e per gli occhi. Gelato salato, alghe umibudo a palline, katsuobushi (pesce affumicato e compresso che pare legno: va grattugiato), carne in scatola Spam - amata dai soldati americani in servizio a Okinawa, ma adottata anche dai locali -, frutta a prezzo di diamanti, negozietti vintage pulciosi e ammalianti, lettori della mano, quadri di samurai e di Michael Jackson, kimono, deliziosi biscotti chinsuko, miele, scatole bento (il popolare pranzo take-away), camicie hawaiane, fiori freschi e zampe di maiale agu usate per la zuppa Ashi Tebichi. Di notte le vie della galleria sono deserte, abitate solo da neko (gatti), qui più diffusi che in qualsiasi altra città giapponese. Il vero spettacolo della Heiwa-dōri, però, è il mercato Makishi, nel cuore della struttura. Un mercato del pesce tra i più ricchi al mondo, con specie per noi esotiche, qui comuni. I poveri fugu, pesci palla, sono venduti spellati, e chi vuole preparare del sushi viene ad acquistare pesce pregiato a prezzo contenuto che può anche essere fatto cucinare dai ristorantini del primo piano, dove le famiglie locali consumano pranzi luculliani. Tra le bancarelle spiccano anche inquietanti teste di maiale, o meglio, le maschere, la pelle della testa, dal collo alle orecchie, sottovuoto. Sono considerate una prelibatezza.






Dopo il disastroso terremoto/tsunami/fuga radioattiva da Fukushima dell’11 marzo 2011, Okinawa ha visto un afflusso incessante di gente che ha lasciato casa e lavoro nelle zone disastrate, così come a Tokyo, Yokohama, Chiba, Kamakura e altri luoghi del Centro-Est. Alcuni hanno abbandonato il passato temporaneamente, prendendosi un anno ‘sabbatico’ a distanza di sicurezza da acque e cibi contaminati, altri lo hanno fatto definitivamente. Oggi Okinawa, sta vivendo una forte crescita demografica. Il luogo è il più distante da Fukushima (circa 1750 km in linea d’aria) entro i confini nazionali, ed essendo nella fascia subtropicale, dove di giorno in inverno si va di rado sotto i 15°C, gode di un clima temperato. Pesce, frutta e verdura giungono da regioni sicure, e a queste vanno aggiunti i molti cibi importati, perlopiù inscatolati, apprezzati soprattutto dalla folta popolazione statunitense. Spaghetti e tagliatelle De Cecco possono essere reperiti nei supermercati migliori, seppure ad almeno il triplo che in Italia. La migrazione interna ha lati positivi (una maggiore diversificazione culturale, con piatti e artisti provenienti da molte altre regioni), così come lati negativi (il mercato del lavoro è più scarso che nella regione di Tokyo, con salari inferiori, e ricominciare tutto daccapo non è facile), ma il fenomeno non si ferma. Soprattutto le famiglie con figli piccoli scelgono Okinawa quale rifugio sicuro, anche perché qui i prezzi sono più bassi che nel resto del Giappone. Difficile dar loro torto.





Tempo fa un conoscente mi ha chiesto quale fosse il luogo di Naha che più amavo. Più che un luogo, un’atmosfera, gli ho risposto. Quella fatta di negozi di abbigliamento pessimo per vechiette, di gatti randagi, di frutta e verdura non di primissima qualità vendute vicino al mercato, sul finire della galleria commerciale Heiwa-dōri. Un dedalo di viuzze che sfocia nel quartiere di Tsuboya, dove ci sono solo negozi che vendono ceramiche spettacolari e case belle e basse, protette da un esercito di Shisa, i leoni-cani scaccia spiriti, guardie di ogni abitazione di Okinawa che si rispetti. Adoro perdermi in quei cunicoli, mangiare dell’Okinawa soba in ristorantini dove gli spaghetti si risucchiano con rumori da idrovora e un ufficio di igiene avrebbe molto da ridire, ma in cui il sapore è vero, il costo proletario e l’atmosfera non ha prezzo.






Qualche decoratore con passato da giostraio deve aver arredato le arcate della Heiwa-dōri. Ai piani bassi è un viavai di turisti a caccia di souvenir, ma se alzi il naso scorgi arredi usciti da un film di fantascienza a basso costo. Pipistrelli di plastica di un metro e altri animali assortiti, apparentemente avvinghiati in una ragnatela di palloncini colorati e addobbi natalizi, non importa se ormai è marzo. Il Giappone è un Paese di dettagli, e Naha non è da meno. Ci ho passato mesi, ma non mi stanco mai di perdere lo sguardo fra le merci esposte nei negozi dove tutto è reperibile, a volte a prezzi stracciati. La mia preferita è una vecchietta con la schiena piegata a novanta gradi. A vederla non dà l’idea della salute, ma ha una corteccia da scaricatore, tant’è che ogni giorno apre, allestisce e richiude il suo negozio di oggetti usati senza grossi problemi, un passetto per volta. Tra i suoi scaffali trovi coppie di cinghiali in ceramica, corna di bufalo laccate e intarsiate, manga, thermos marca Milano, sci (mai vista la neve, a Naha), vasellame assortito. Tutto ha il prezzo riportato sopra, ma se accenni ad alzare mezzo sopracciglio la vecchietta ti fa al volo uno sconto del cinquanta percento.






La galleria è pervasa da musica da reparto geriatrico, oppure da crociera, dall’alba al tramonto. Aiuta a godere il ritmo rilassato dello shopping senza le frette né le ansie da mall, da griffe. In questo angolo della città nessuno è ricco. All’uscita della galleria, girato l’angolo, una serie di sake-bar dove, volendo, ti puoi prendere una sbronza seria a qualsiasi ora del giorno o della notte. Entrarvi, oltre a farci diventare Uomini Veri, varrebbe anche la scrittura di una decina di romanzi, se solo Hemingway fosse ancora vivo. Una volta mi sono intrufolato, per pura curiosità ficcanaso, in uno di questi localacci verso mezzogiorno. Tutti, dentro, avevano almeno sessant’anni, ma a giudicare dai sorrisi erano ragazzini. Qualche sbevazzone professionista accompagnato da intrattenitrici pure attempate. Come mi infilai nella tana del leone, accompagnato da un amico brasiliano karateka, ventidue anni portati benissimo (fisico da surfista), le nonne presero fuoco. Iniziarono praticamente a spogliarlo lì, sotto gli occhi di tutti, lisciandogli bicipiti e addominali. Quando raggiunsero la zona dell’inguine infilammo la porta fra cento arigato.






A pochi passi dai baracci, qualche giorno fa, ho vissuto il mio momento di adrenalina. Stavo razzolando pigramente dalle parti del vecchio mercato, fra gatti e negozi mezzi chiusi. Poi, tutto d’un tratto, sirene della polizia. Roba che a Naha si sente solo il sabato sera, quando i poliziotti cercano invano di acciuffare gang di rumorosissimi motociclisti che imperversano lungo i viali della città. Qual giorno sembrava che fossero crollate le Torri Gemelle. Ho subito pensato a un ritorno di fiamma della potente yakuza locale, fortissima e sanguinaria negli anni Settanta (poi praticamente espulsa ed estintasi a Okinawa). In un minuto sono arrivate almeno dieci auto della polizia, uomini e donne in uniforme, più qualcuno in borghese. Pistole in mano hanno accerchiato una farmacia. Bloccato un uomo su un lato della strada, inseguito un altro (inesistente) su quello opposto. Mentre un paio di poliziotti circondavano l’isolato con scotch giallo da crime scene, altri cinque perquisivano il fermato. Pensando che avesse ammazzato almeno tre persone, mi sono informato.





Il tipo era entrato nella farmacia e aveva intimato alla proprietaria di dargli dei soldi, perché aveva un coltello. Prima di darglieli, però, avrebbe dovuto chiamare la polizia. A fine perquisizione, zero coltelli. Né addosso né per terra da qualche parte. Il tipo non aveva alcun coltello, ma solo un alito pesante. Uscito da un sake-bar, forse, aveva fatto i conti di quanto gli era rimasto in tasca, dalle parti dello zero. E, valutato il vitto e l’alloggio delle galere giapponesi, deve aver deciso di alloggiare a spese dello stato per qualche notte. Ogni anno a Naha muoiono sei-sette persone in maniera violenta. Sai come? Aveva aggiunto il mio amico.Cotti dal sakè, si addormentano in mezzo alla strada e qualche auto gli passa sopra. Alcol, brutta bestia.





La galleria Heiwa-dōri porta al quieto quartiere di Tsuboya, noto per i laboratori in cui si lavora la terracotta. La zona residenziale è un’oasi di pace, con viuzze a saliscendi, negozi dai manufatti pregevoli e laboratori in cui si può assistere al paziente lavoro degli artigiani che forgiano piatti, bicchieri e vasi di ottimo gusto. A proteggerli, tutto attorno, un piccolo esercito di Shisa, diversi da casa a casa, così come all’ingresso del Museo della Ceramica di Tsuboya (www.edu.city.naha.okinawa.jp/tsuboya). Un altro museo interessante è il Naha City Museum of History, a due passi dalla fermata Kencho-mae del monorail. Da qui, con una camminata di un paio di chilometri in salita, si raggiunge il quartiere di Shuri, noto per il castello omonimo (http://www.oki-park.jp/), della dinastia Ryūkyū. Usato dai soldati giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, fu distrutto, per poi essere ricostruito. È una delle maggiori attrazioni storiche di Okinawa, e all’uscita si può tornare in centro discendendo la Kinjo-cho Ishidatami, una bella via acciottolata. A sud di Shuri respira il polmone verde dei Giardini Reali Shikinaen, patrimonio dell’umanità. 





Omer Simpson, in una delle sue battute storiche, ha affermato che le camicie hawaiane le portano i gay o i grassoni simpatici. Alla seconda categoria appartiene Begin, il più noto cantante di Okinawa, maestro dello sanshin - il banjo di Okinawa - e lanciatore della moda delle coppole. Le sue camicie floreali sono diventate uniforme, e i negozi di Kokusai-dōri, la via-passerella del centro di Naha, ne vendono a bizzeffe. Quando il sole batte forte, a volte, puoi pensare di essere a Honolulu. Ma anche un po’ in Cina - guai a chiamare ‘Cina’ la non lontana Taiwan - : a tavola, nella lingua, nella musica e, soprattutto, fra i molti turisti che vi giungono dalla Formosa che fu. Cina-Giappone, antica storia di odio e amore. Oggi il secondo prevale, e sono sempre più i taiwanesi che prendono un aereo, attirati dall’intrigante cultura giapponese.




Se ve ne foste scordati, e anche se si dice che gli abitanti di Okinawa siano pigri e arrivino sempre in ritardo, no, non vi siete sbagliati: anche Naha è Giappone. Seppure lontana dal rigido tradizionalismo di Kyoto e dall’iperproduttività di Tokyo, per non parlare dei 1750 km di sicurezza che la separano da Fukushima, Naha è giapponesissima. E per rinfrescarvi la memoria, se mai avevate pensato per un momento di essere altrove (magari negli States, con i militari americani in libera uscita il sabato sera), andate dal benzinaio - prima di farvi il pieno si inchinerà davanti al cofano dell’auto.



Terminiamo il menù (in Giappone non solo per i ristoranti, ma anche per parrucchieri e barbieri, evviva il Giappone). Le spiagge mozzafiato non sono nel centro di questa città da 320.000 abitanti, se si eccettua quella di Naminoue. Ma per arrivarci basta poco, un’auto a nolo nell’isola maggiore o un’oretta di volo verso le spettacolari isole minori. Dulcis in fundo, un pizzico di Messico. Il locale taco rice è ciò che rimane del tacomessicano, importato dai soldati americani. I locali ne hanno preso l’involucro, lo hanno buttato nelle immondizie (il martedì e il venerdì, giorni dell’organico) e lo hanno sostituito con il riso. Il champuru è servito. Che aspettate, saltate su un aereo e itadakimasu! (buon appetito)



ALTRE FOTO su:
http://www.agefotostock.com/age/ingles/isphga01.asp?querystr=naha&ph=scozzari&Page=1

ALLOGGIO
Sora House
A due minuti dalla stazione Miebashi del monorail, Naha
Tel. 098-861-9939
Ostello frequentato dai backpacker di mezzo mondo, pulito e sicuro, a dieci minuti di cammino da Kokusai-dōri o dal porto Tomari. Camere con quattro letti a castello a 1700 yen a persona, possibilità di cucinare, wifi e lavatrice.


VIAGGIO
L'Italia (Fiumicino, Malpensa) è collegata al Giappone (Tokyo) con l'ottima Cathay Pacific (http://www.cathaypacific.com/cpa/it) a circa 700 euro. Da  Tokyo si può raggiungere Naha  con le linee aeree low-cost  Skymark (skymark.jp/en, da Narita o da Haneda), Air Asia (http://www.airasia.com/jp/en/home.page, solo da Narita) o Jetstar (jetstar.com/au/en/home, solo da Narita). Il volo da Narita dura circa 2 ore e mezza e costa, se prenotato almeno un mese prima (prenotazione on-line con carta di credito, da presentare al check-in, dove effettuare il pagamento), fra i 100 e i 150 euro, a seconda del periodo.  Dall’aeroporto di Naha, a circa 6 km dal centro, si può prendere l’efficiente monorail (metropolitana sopraelevata), oppure un taxi (circa 1200 yen per il centro).  Le isole minori dell’arcipelago possono essere raggiunte in aereo o in barca. 


SHOPPING
Numerosi i negozi, davvero particolari, a Naha. Trovarli, nascosti nelle viuzze, è spesso una caccia al tesoro: armatevi di santa pazienza. Per abiti e oggetti vintage: Ankh (ankhvintage.ti-da.net), all’uscita di Heiwa-dōri. Lo riconoscerete anche per i gatti che circolano fra i manichini. Bell’abbigliamento e accessori indiani da Chahat (chahat27.com, 2-21-1 Matsuo, dalle 11 alle 18). Il proprietario parla italiano: ha vissuto a Firenze, da cui ha ‘esportato’ l’amore per le borse in pelle. Fantastici oggetti di cartapesta e di ceramica da Roadworks (toy-roadworks.com, Naha-shi Makishi, dalle 10 alle 18, chiuso la domenica): giocattoli matti, diavoli e conigli, alberi di natale come non ne avrete mai visti, tutto fatto a mano. A Tsuboya, un bel laboratorio di terracotta è Ikutounen (ikutouen.com), nella parte alta del quartiere.


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